Nelle Pmi, il lavoro che c’è. A mancare sono i profili giusti

Posted By Daniela Montalbano on Giu 4, 2019 | 0 comments


MANCANO I PROFILI GIUSTI
Non è una novità, ma se a un problema – soprattutto se vecchio – non si è ancora trovata una soluzione, bene si fa ad insistere. Confartigianato Imprese, insiste. E’ il presidente Giorgio Merletti, dalle colonne del Corriere della Sera, ad aprire un ulteriore squarcio sul problema che rischia di paralizzare le piccole e medie imprese e, di conseguenza, il mercato del lavoro: all’appello mancano 882mila professionisti. Non solo figure 4.0 come tecnici Ict (il mercato potrebbe assorbirne 21.880, ma il 63,2% non si trova), analisti e progettisti di software ma anche meccanici e saldatori, attrezzisti di macchine utensili (ne sono richiesti 19.580), sarti, modellisti e cappellai (7.830), estetisti e truccatori (4.930), falegnami e attrezzisti per la lavorazione del legno (7.520). Servono, e in fretta.

Dice Merletti: «Il lavoro è cultura. Dobbiamo ripartire dall’apprendistato che garantisce retribuzione, tutele e formazione. A fronte di un fabbisogno occupazionale delle imprese italiane di 3 milioni 495mila unità, il 25,2% dei potenziali dipendenti risulta introvabile». Buone notizie anche per chi ha meno di trent’anni di età ed è alla ricerca di un’occupazione: nelle Pmi sono scoperti 250mila posti di lavoro. Scrive il Corriere: «In questa fascia di età le figure più richieste son i conduttori di macchinari per il movimento terra (1080 assunzioni vacanti) seguiti da analisti e progettisti software (4.510 assunzioni) e tecnici programmatori (2.120 assunzioni)». Ma qualcosa non va.

DA DIPENDENTI A IMPRENDITORI PER SALVARE IMPRESA E COLLEGHI
Eppure, c’è chi il lavoro se lo inventa e lo dà. E’ il caso della Berna Snc, azienda di Cassano Magnago socia di Confartigianato Imprese Varese specializzata nella produzione di manici di ombrelli in legno e rivestiti in pelle. I fratelli Mario e Maurizio Nozzolino, dopo la chiusura della storica Bernasconi Ambrogio di Gallarate (14 i dipendenti), ormai cinquantenni si pongono il problema: «Ora che facciamo?». Da dipendenti decidono di diventare imprenditori: investono i loro Tfr nell’attività, acquistano i macchinari dall’ex titolare, assumono gli ex colleghi. E lavorano intercettando i clienti di una volta e diventando subfornitori di aziende che realizzano ombrelli per i più importanti marchi della moda.

SELEZIONE DEL PERSONALE: L’ALGORITMO CHE TI GUARDA NEGLI OCCHI
A dire il vero, le Pmi rappresentano anche un’altra certezza: l’apprendistato mette in stretto contatto il titolare con il giovane, aiuta la reciproca conoscenza e aiuta la creazione di un rapporto di fiducia che, nella maggior parte dei casi, sfocia in un posto di lavoro sicuro. In altre realtà imprenditoriali, nel prossimo futuro, sapere se il candidato al posto di lavoro è adatto o meno sarà un po’ meno empatico. Sempre dal Corriere della Sera: «Ora ci sono anche i robot che ci esaminano per vedere se e quanto siamo adatti al lavoro desiderato. E’ l’ultima frontiera dell’”intelligenza artificiale socializzante” e ha un obiettivo dichiarato: garantire a chi cerca un impiego dei colloqui senza sospetti di discriminazione». Il robot prototipo, inventato dall’ingegnere siriano Samer Al Moubayed, è alto 41 centimetri e si chiama Tengai. «Il municipio di Upplands-Bro in Svezia le ha (”le”, perché ha un delicato volto femminile) affidato il compito di selezionare un coordinatore digitale». Basta un cervello algoritimico con domande uguali poste ai candidati nello stesso ordine e con lo stesso tono: «Le risposte trascritte, verranno poi passate ai responsabili “umani” dell’azienda».

COSTO DEL LAVORO TROPPO ALTO: C’E’ CHI SE NE VA DALL’ITALIA
Però c’è chi non sente ragione, e in Italia proprio non ci vuole più restare. Non stiamo parlando solo della famosa “fuga dei cervelli” (alcuni stanno ritornando in Patria) ma anche di quella delle imprese. Il quotidiano “La Repubblica” comunica alcuni dati Istat: «Settecento imprese hanno trasferito all’estero tra il 2015 e il 2017 attività o funzioni. Sono il 3,3% delle grandi e medie aziende: dieci anni fa, tra il 2001 e il 2006, la quota era decisamente più alta, il 13,4%. Chi trasferisce all’estero funzioni aziendali, rileva l’Istat, lo fa prevalentemente per ridurre il costo del lavoro, mentre solo il 38% lo fa per accedere a nuovi mercati. Per prendere in considerazione il rientro, le imprese chiedono cambiamenti strutturali, a cominciare da una riduzione della pressione fiscale (84,5%), politiche per il lavoro (79%) e ricerca e sviluppo (70,9%)». Comunque, un dato è incoraggiante. E arriva sempre dalle analisi dell’Istat: «La quota delle imprese Ue che trasferiscono all’estero attività o funzioni è passata dal 16% del 2001-2006 al 3% del 2015-2017, un calo ancora più significativo di quello italiano».