Attacco alla plastica, troppe “fake news”: le alternative sono peggio del problema?

Posted By Daniela Montalbano on Ott 24, 2019 | 0 comments


In tempi di dibattito aperto sulla nascente “plastic tax” governativa (in vigore comunque non prima del luglio 2020), sono in molti a pensarlo: la plastica è sotto attacco. Ma, se non condotta con cautela o affrontata nel modo giusto, la guerra scatenata per tutelare l’ambiente dalle “isole delle bottigliette abbandonate” rischia di lasciare sul tappeto sia la vittima più illustre che una parte consistente del nostro sistema economico, quello legato all’importantissima filiera produttiva della plastica (che in Italia conta cinquemila imprese) e al suo indotto.
Ecco perché non usa mezzi termini Davide Baldi, esperto del Settore Ambiente nell’affrontare un tema bollente e d’attualità ma spesso vittima di “fake news” e falsi miti: «La plastica è sotto attacco – conferma – ed è sotto attacco in una logica consumistica alternativa, non per quello che la plastica è in sé».
LA BOTTIGLIETTA NON E’ “IL” PROBLEMA – Un esempio per tutti: le bottiglie di plastica abbandonate arrecano sì un danno, perché hanno un tempo di decadimento di almeno 100 anni, galleggiano e si possono ritrovare più o meno dappertutto. «Ma – dice Baldi – la bottiglia di plastica, in sé, non è “il” problema. Tanto più che è riciclabile nell’ambito di una filiera molto ben sviluppata, frutto di campagne sul riciclo che in Italia sono partite nel 1997, con il primo decreto Ronchi».
“Il problema”, piuttosto, si chiama abbandono ed è un male curabile con campagne informative e formative estese e impattanti da rivolgere in particolare a quei Paesi dove la plastica monouso ha risolto il dramma sanitario dell’assenza di acqua potabile ma ha prodotto numerosi “abusi” non adeguatamente frenati.
Tra l’altro, anche le alternative alla plastica monouso rischiano di avere controindicazioni di portata simile, se non superiore, a quelle arrecate dal problema originario.
Per capirci: oggi, i surrogati alla bottiglietta sono le bioplastiche, le “borracce” (i contenitori in acciaio o vetro) e la cellulosa. Una scelta, anziché l’altra, «può spostare il problema – sostiene Baldi – ma non è detto che riesca a risolverlo».

LE CONTROINDICAZIONI DELLE ALTERNATIVE – Cerchiamo di capire il perché. La bioplastica non ha impatto zero: ha certamente vantaggi dal punto di vista dell’impatto ambientale, poiché impiega da uno a quattro anni a decadere «ma deriva dal cibo, tipicamente mais e canna da zucchero, e dobbiamo chiederci se non si rischi di stressare eccessivamente l’agricoltura, e quindi l’ambiente, nel tentativo di produrne a sufficienza per sostituire integralmente l’altra». Mais geneticamente modificato e abusi agricoli possono generare, infatti, un danno ambientale serio. E poi, che dire della tanto decantata biodiversità?
Analogo ragionamento vale per la bottiglietta d’acciaio che, come la plastica, deriva da una risorsa finita (fossile) non rinnovabile e ha un ciclo produttivo che inquina al pari di quello della plastica: «La differenza evidente è solo il costo. Poiché questo oggetto lo si paga di più, si finisce per non buttarlo con analoga facilità». A questa stregua, basterebbe “riusare” la bottiglia di plastica per ottenere il medesimo risultato.
Capitolo cellulosa: in quanti sanno quale sia l’impatto ambientale di una azienda produttrice di carta? Inoltre, poiché la produzione in Italia è stata abbandonata in seguito alla crisi, per soddisfare i bisogni del mercato bisognerebbe attingere a piene mani dall’importazione, con conseguente impiego di combustibile fossile per i trasporti tale da generare un bilancio energetico equivalente a quello dei piatti di plastica.

NON BISOGNA SPOSTARE IL PROBLEMA MA RISOLVERLO«Ecco perché – tira le somme l’esperto è fondamentale basare le scelte ambientali su rigorosi bilanci energetici e non sulle reazioni emotive alle immagini dei disastri ambientali. Altrimenti finiremo soltanto per spostare il danno altrove, più lontano dai nostri occhi». Una cosa già accaduta ai tempi della lotta all’ozono, condotta a suon di diffusione dei cosiddetti gas ecologici. «Oggi il risultato di quelle scelte è la diffusione della Co2, che noi stessi contribuiamo ad alimentare con la diffusione dei climatizzatori di cui nessuno è più disposto a fare a meno».
Sfatata qualche fake news, veniamo al cuore del problema: come affrontare con coscienza il problema dell’abbandono della plastica monouso, che tanti danni arreca al Pianeta.
«Il primo intervento deve essere culturale: le prassi del buon utilizzo e del corretto smaltimento sono in cima all’elenco di quelle da mettere in atto diffusamente».
UN TERREMOTO NEL SISTEMA ECONOMICO NAZIONALE – A seguire, una premessa: «L’Italia – ricorda Baldi – è tra i maggiori produttori di imballaggi al mondo, quindi scegliere di tagliare tout court la plastica significa scatenare un terremoto nel sistema economico nazionale». Prima di procedere, meglio mettere in campo un vero piano di investimenti da destinare alla riconversione della produzione aziendale (come ha già fatto la Germania, mettendo sul piatto la cifra-monstre di 100 miliardi di euro) oppure allungare i tempi di trasformazione della filiera per dare tempo alle imprese di adeguarsi autonomamente.
Altre soluzioni, all’orizzonte, non ce ne sono: «Il Green News Deal, così come è stato pensato fino a oggi in Italia, è invece solo un accorgimento per spostare i consumi e incrementarli in modo nuovo: manca una vera visione ecologica». Tanto più che il rischio, già spiegato nel dettaglio, è di lasciare tante aziende ferite sul campo di battaglia.
Per concludere: le aziende sono pronte ad assecondare il mercato, ma compito dei decisori è fare scelte oculate, approntare adeguate iniziative culturali e accompagnare il cambiamento, riconversione compresa, attraverso investimenti proporzionati, per evitare di impoverire uno dei pilastri dell’economia nazionale e tutto il suo indotto. «Dobbiamo iniziare a parlare di ecologia». Il mondo va salvato con la concretezza, non spostando il problema o, peggio, infilandolo sotto al tappeto.